bardo

“La depressione è una malattia dei borghesi che nasce dall'ozio”, con la pigrizia di una massima di questo stampo si può riassumere l'esperienza che matura in sala durante la visione di Bardo, un po' brillante, un po' frustrante. Silverio Gama, illustre giornalista e documentarista messicano che ha costruito famiglia e carriera a Los Angeles, torna in Messico per festeggiare con famigliari e amici l'assegnazione del più importante premio giornalistico del mondo distopico messo in scena da Alejandro G. Iñárritu.

Benché il film sia infatti narrato tra Messico e Stati Uniti, la storia non aderisce alla Storia e ci ritroviamo a percorrere le strade del protagonista con un lieve smarrimento. Mentre siamo immersi in scene che spaziano dal realismo all'onirismo facciamo la conoscenza delle persone e dei momenti più significativi della vita del protagonista, alter ego non troppo celato del regista.

Il film, segnato da momenti di grande cinema e un incedere deciso delle prime due ore, fatica a far prendere il sopravvento alla vena ironica che in più di un'occasione si intravvede rimanendo però solo un'intenzione.

Il tema del racconto della realtà e di cosa sia, in effetti, la realtà è centrale. Viene affrontato attraverso diversi momenti di confronto tra il protagonista e le figure che gli gravitano intorno o dagli stessi snodi narrativi (chi conosce l'accezione buddhista del termine Bardo può intuirne il meccanismo). Iñárritu mette in campo tutti gli aspetti che possono intercorrere tra individuazione e analisi della realtà, in particolare da un punto di vista umano, emotivo; ma la mancanza di un carattere leggero, quasi smarrito, rischia di far cadere le considerazioni nell'autocelebrazione e appesantire un'architettura scenica complessa e ben dosata, con l'eccellente fotografia di Darius Khondji e una colonna sonora splendida.

Voto: 2/4

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