Recensioni film in sala

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È davvero molto raro che, al di là di qualunque suggestione o provocazione più o meno sentita, un regista si metta a nudo completamente. Può succedere che riproponga parti, spunti o estratti più o meno evanescenti della sua vita e dei suoi trascorsi - anche, e spesso, mentendo - filtrati dallo specchio della sua fantasia o pescati dal porto sepolto dei propri immaginari di riferimento (vedasi in questo caso, sopra tutti, Fellini, naturalmente: maestro venerabile e dichiarato dell’ormai consolidato talento napoletano), o che accarezzi, attinga o afferri qualcosa di più o meno tumulato dai meandri dell’inconscio per integrarlo o intrecciarlo alla storia che sceglie di raccontare, ma molto raramente (se non mai, diciamolo) capita che un regista dica: “Ecco, questo sono io, e questa è la mia storia”.

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Dopo lo sfolgorante debutto con Lo chiamavano Jeeg Robot (miglior regista esordiente al David di Donatello, 2016), Gabriele Mainetti mette in scena Freaks Out, in concorso all’ultima rassegna della Mostra di Venezia. Soggetto di Nicola Guaglione, e sceneggiatura a quattro mani con il regista, come nel film precedente. Con il suo secondo film, Mainetti ribadisce il suo amore per il cinema, per i supereroi Marvel e per le storie impossibili, partendo da personaggi reali, meglio ancora se un po’ coatti.

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La storia del cinema è piena di progetti "maledetti" e quello dell'adattamento di Dune di Frank Herbert è stato per anni uno di questi esempi: l'insuccesso della versione di David Lynch (che pure è un'opera affascinante) è mitico almeno quanto il fallimento della rielaborazione psichedelica e abortita di Alejandro Jodorowski (anche Ridley Scott ci provò inutilmente, per poi "ripiegare" su Alien). Denis Villeneuve prova a spezzare la maledizione con questo lavoro che per ambizione forse supera persino il suo Blade Runner 2049. Alla faccia di chi lo considera infilmabile, il romanzo di Herbert prende forma sullo schermo nella prima parte di un dittico che, già rinviata per il Covid, ha l'arduo compito di restituire una volta per tutte al pubblico la grandiosità del cinema per cui il grande schermo è vettore fondamentale (per questo, l'idea di far uscire negli Usa in sala e contemporaneamente su Hbo Max è assurda, e giustamente osteggiata da Villeneuve). 

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Uno dei buoni motivi per tornare in sala è la presenza, tra un blockbuster e un Me contro Te - Il film, di vero cinema d'autore. Come nel caso di Il gioco del destino e della fantasia, Orso d'Argento Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2021 e acclamato al Far East Film Festival. Delicatissimo dramma firmato dal giapponese Hamaguchi Ryusuke, è una sinfonia in tre atti, tre episodi a sé stanti: “Magia (o qualcosa di meno rassicurante)”, “Porta spalancata”, “Ancora una volta".

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Non è un remake, né un sequel né un reboot del (terribile) film di David Ayer del 2016, ma semplicemente la "Suicide Squad di James Gunn". Il produttore Peter Safran non poteva sintetizzare meglio questa bizzarra operazione che si prende coraggiosamente la programmazione estiva in tempi di Covid e, onestamente, è qualcosa che nel blockbuster americano contemporaneo (con la parziale eccezione di Deadpool) non si era mai visto. Questo a dispetto dall'evidente e studiatissimo tributo di The Suicide Squad al bellico anni 60-70 nello stile di Una sporca dozzina, al western, al cinema demenziale e persino al kaiju ejga giapponese. Ultraderivativo e originale insieme, dunque.

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