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- Scritto da Giacomo De Rinaldis
- Categoria: Recensioni film in sala
- Pubblicato: 26 Marzo 2022
Drive My Car, una possibile analisi
È possibile “amplificare il silenzio”? Questa strana espressione è citata all’inizio di Drive My Car, film del regista giapponese Ryusuke Hamaguchi candidato a ben quattro premio Oscar (miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura non originale, miglior film straniero), e rappresenta forse la domanda a cui cerca di rispondere quest’opera complessa. Parlare in poche righe di Drive My Car è impossibile: occorrerebbero non poche pagine per esplicitare tutto ciò che questo film-esperienza riesce a rappresentare in “sole” tre ore, immergendo lo spettatore all’interno dei misteri dell’interpretazione dell’opera d’arte e di tutto ciò che concerne l’umano (il lutto, il senso di colpa, le relazioni familiari, il rapporto finzione-realtà). Di un film che è un infinito gioco di specchi non si può quindi che parlare in modo riduttivo, scegliendo di percorrere solo uno dei molti sentieri che traccia. Quello del silenzio sopra citato non è che uno di questi percorsi.
Ispirato ad un racconto del celebre scrittore Haruki Murakami, il film è diviso in due parti - separate dai titoli di testa, che appaiono dopo ben 45 minuti dall'inizio - e vede come protagonista Yusuke Kafuku, un attore teatrale e regista. Nella prima parte Kafuku è alle prese con una moglie che lo ama ma che lo tradisce, mentre nella seconda lo troviamo, due anni dopo e vedovo, a Hiroshima per rappresentare Lo zio Vanja di Cechov. Qui dirigerà un gruppo di attori tra cui Takatsuki, giovane star della televisione ed ex amante della moglie. In questa occasione Kafuku avrà un'autista personale, Misaki, la quale avrà il compito di accompagnarlo a bordo di quella Saab che lui ama tanto e di cui è molto geloso. I due stringeranno un legame unico ed inaspettato, che condurrà entrambi a far riemergere le loro ferite più profonde.
Il testo di Cechov è il vero protagonista del film: esso rappresenta un vero e proprio “catalizzatore di epifanie”, uno specchio che ha il potere di esprimere la vera condizione del protagonista e dei personaggi, tanto che Kafuku ad un certo punto sostiene: “Cechov tira fuori il vero te. È insopportabile”. Le potenti frasi dello scrittore russo risuonano durante tutto il film, lette dalla voce della moglie di Kafuku e ascoltate ossessivamente in macchina dal protagonista. Non è un caso che la defunta moglie si chiamasse Oto, cioè “suono”: ella infatti è colei che con la sua voce è diventata solo un suono, l’unico appiglio concreto alla silenziosa solitudine di Kafuku.
Il significato delle battute che ricorrono sempre uguali durante il film cresce con la nostra conoscenza dei personaggi. Ad ogni ripetizione, il testo assume una coloritura diversa, poiché il suo significato trascende quello delle parole. Kafuku propone spettacoli teatrali multilinguistici e obbliga i suoi attori a lunghe sessioni di lettura ad alta voce del testo, in cui ogni attore legge nella propria lingua. Nessuno capisce il significato di tutte le parole, ma riesce così ad entrare nel “flusso del testo”, che diventa come un sutra che lentamente viene interiorizzato.
L’intimo rapporto di Kafuku col testo emerge nella sua contrapposizione col giovane Takatsuki che, nonostante il grandissimo successo televisivo, dice di sentirsi vuoto. Egli usa il testo per affermare sé stesso, mettendo così tra sé e l’opera una distanza abissale. Il giovane attore non si pone in ascolto delle battute della pièce di Cechov perché non si concede ad esso, non ne comprende quel significato profondo che altro non è che una domanda con cui il testo ci interroga.
Tra le lingue presenti nella messa in scena de Lo zio Vanja emerge in modo sconvolgente la lingua dei segni di un’attrice muta, attraverso cui le parole dell’opera teatrale si fanno gesti, mantenendo (anzi, potenziando) la loro enorme carica espressiva. L’interiorizzazione dell’opera da parte degli attori (e di noi spettatori) fa sì che durante le prove e alla prima dello spettacolo di Kafuku avvenga “qualcosa”, un evento il cui senso è extralinguistico: è il miracolo della ricomposizione di Babele, per cui gli esseri umani tornano finalmente a comprendersi.
Se questo “qualcosa” non passa attraverso le parole, riguarda piuttosto i silenzi e la loro amplificazione attuata dal testo. L’opera di Hamaguchi racchiude le molteplici forme che il silenzio può avere, ognuna delle quali ha una sua peculiarità, dal momento che in Drive My Car nessun silenzio somiglia ad un altro. Kafuku e la moglie non si parlano perché tra loro grava il non-detto ed il lutto per una figlia scomparsa prematuramente. Il silenzio tra il protagonista e Misaki è invece quello di una profonda complicità, che acquisisce sempre più forma fino a sfociare nella scena madre, in cui i due si rivelano: questo momento è preceduto da più di un minuto in cui non si sente alcun suono ed è ambientato in mezzo alla neve, fenomeno atmosferico che col suo manto bianco tacita totalmente i suoni del mondo.
Il bianco della neve abbaglia lo spettatore in sala: siamo di fronte ad una folgorazione che ci coinvolge. Drive My Car può essere per noi quello che il testo di Cechov è per i personaggi, in quanto essa è un’opera-specchio in cui possiamo vederci veramente. Durante le scene a teatro Hamaguchi riprende il pubblico, mentre gli attori sulla scena sono di spalle; si crea così una profondità di campo che sfonda la quarta parete e ci interpella direttamente, dal momento che lo schermo della sala diventa il nostro specchio: quel pubblico siamo noi. È così che l’opera d’arte ci parla in modo autentico, sottoponendoci la domanda su chi siamo con una chiarezza che il linguaggio non potrà mai possedere.
Voto: 4/4
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