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- Scritto da Francesca Sozzi
- Categoria: Recensioni film in sala
- Pubblicato: 24 Marzo 2022
L’ultimo lungometraggio della neozelandese Jane Campion, tratto dal romanzo omonimo di Thomas Savage, s’immerge nelle atmosfere di un drammatico western, con sottili risvolti psicologici thriller. Presentato in concorso a Venezia 2021, dove ha vinto il Leone d’Argento per la miglior regia, da lì vincitore incontrastato ai Golden Globe 2022 e ai Bafta Awards 2022, in nomination agli Oscar per Miglior film, regia, attore protagonista, attrice e attore non protagonisti, sceneggiatura non originale (sempre J. Campion), fotografia (Ari Wegner) e colonna sonora (Johnny Greenwood, non a caso già dietro le musiche de Il petroliere). Distribuito da Netflix.
Ambientato tra le montagne e la natura incontaminata del Montana, primi anni ‘20. Cast in stato di grazia: due fratelli, Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), i ricchi proprietari di un ranch, intrecciano le proprie vite e destini con una fragile vedova, Rose (Kirsten Dunst) e il di lei figlio teenager, Peter (Kodi Smit-McPhee). Quando George sposa Rose e la porta a vivere nel ranch, nel quartetto si mettono in moto una serie di dinamiche sado-maso, con lotte e tensioni per prevaricare l’avversario più debole. Ma chi è veramente il più debole? E chi e cosa è veramente un uomo? Queste sono le domande che accompagnano l’intera visione del film…
Molti i rimandi al precedente Lezioni di piano (1993), sia per la magnificenza della natura incontaminata, per la sua maestosa attesa e testimonianza al dispiegarsi di passioni latenti, inconfessabili e violente, sia per lo sviluppo dei rapporti umani fondati sul binomio sopraffazione/sottomissione, vittima/carnefice.
Nel titolo stesso tutto il senso del film, da un passo della Bibbia: “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”, monito che Gesù lancia ai centurioni, quando dalla croce, li vede depredare le sue vesti come un branco di cani che lo circonda e assedia...”. E se la spiegazione più ovvia al salmo sta nella consapevolezza di chi detiene il potere, di poter opprimere chi non ce l’ha, il significato si amplia notevolmente, se per “potere del cane” s’intende un groviglio violento di pulsioni profonde, torbide, erotiche, segrete… campo prediletto dalla regista.
Nel contesto machista della vita del ranch, i due fratelli agli opposti, uno delicato e paziente, l’altro omofobo e misogino. Il secondo accoglie la cognata e il di lei effemminato figlio come una minaccia da eliminare, elementi perturbanti in uno scenario atavico dove domina la forza aggressiva di una mascolinità brutale, che gioca in sadico attacco per difendere il territorio e pulsioni sessuali inconfessabili.
Il fascino selvaggio della frontiera americana, sull’orlo del cambiamento verso la modernità, ripreso con suggestive panoramiche di grande respiro, alternate a primissimi piani di truculenti dettagli di cosa può pure essere la Natura: oltre la poesia, la violenza. Impulsi profondi e incontrollabili li campeggiano, si profilano e aspettano la necessaria e inattesa evoluzione.
La Campion alla regia conferma la sua maestria nel costruire inquadrature di forte impatto visivo e poetico, sostenute da una narrazione coinvolgente, resa sfaccettata e intensa dalla potente interpretazione di tutti i personaggi in campo, che mantengono il ritmo e la suspense per l’intera lunga durata, regalandoci un finale a sorpresa. Magnifici nel sorprendente duello psicologico di volontà, Phil (B. Cumberbacht) e Peter (K. Smit-McPhee). Nella dicotomia anima/cuore versus spada/potere del cane, chi vincerà in ultima istanza?
Voto: 3/4
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