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DONALD CRIED di Kris Avedisian (2016) - Concorso Cineasti del presente

God Bless America? In tempi in cui Trump rischia di governare la Casa Bianca per il prossimo quadriennio, sono ben altri gli auguri che viene voglia di indirizzare agli Usa. Una cosa è certa, però: Dio benedica il cinema indipendente americano. Intendiamoci, questo Donald Cried, presentato al Festival di Locarno nella sezione forse più interessante della kermesse (Cineasti del presente, sguardo sui nuovi volti del panorama filmico internazionale) non è nulla di nuovo rispetto all'ormai classico genere della commedia intimista e al buddy movie dal sapore nostalgico cui tanto cinema off Hollywood ci ha abituati negli anni. Ma la delicatezza e l'intelligenza con cui l'esordiente Kris Avedisian adatta a lungo un suo precedente cortometraggio rendono il film una delle sorprese più deliziose della manifestazione elvetica. Regista, sceneggiatore e attore protagonista, Avedisian (nome inequivocabilmente di origine armena, a ribadire ancora una volta come il multiverso cinematografico a stelle e strisce è fatto di infinite radici etnico-culturali) imbastisce un racconto generazionale sul classico "ritorno alle origini" dell'operatore finanziario Peter (Jesse Wakeman), che da Manhattan si ritrova catapultato nella cittadina natale a distanza di 15 anni per la morte della nonna, spaesato tra le nevi del proletario Rhode Island e privato del portafogli. A giungergli in soccorso è il suo passato adolescenziale nelle fattezze del vecchio amico Donald (Avedisian), eterno Peter Pan stralunato e logorroico il cui candore infantile è tanto tenero quanto stramboide. Senza fronzoli, lungaggini e retorica, Donald Cried scivola con leggerezza e delinea un malinconico ritratto di amicizia virile dal retrogusto amaro, che lascia un piccolo ma significativo segno in una cinematografia destinata a restare anni luce lontana dalle sale italiane.

Voto: 2,5/4

 

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I HAD NOWHERE TO GO di Douglas Gordon (2016) - Concorso Cineasti del presente

Jonas Mekas è un leggendario cineasta lituano naturalizzato statunitense, tra i più importanti esponenti del cinema underground americano nonché fondatore del New American Cinema nel 1960, dell’Anthology Film Archives e della rivista Film Culture. Sul "padrino dell'avanguardia cinematografica" Usa (tra le altre cose, fu operatore del celebre Empire di Andy Warhol) il regista Douglas Gordon (Zidane, un portrait du 21e siècle) costruisce un documentario che è tra gli oggetti più anomali presentati in questa edizione del festival svizzero, un curioso prodotto di radicale sperimentalismo visivo proprio in omaggio alle opere del soggetto analizzato. Eppure, del regista novantaquattrenne, Douglas non va a indagare il processo creativo e il percorso artistico, bensì l'odissea di rifugiato: la fuga dalla natia Lituania attraverso la Germania della Seconda guerra mondiale, la vita negli accampamenti per sfollati a Wiesbaden e a Kassel, fino allo sbarco negli Stati Uniti nel 1947, narrati nell'omonima autobiografia scritta dallo stesso Mekas. La voce narrante di quest'ultimo rievoca così fatti ed episodi, con continui salti temporali come in un flusso di coscienza filmico: a corredo della narrazione, spesso interrotta da rumori di esplosioni che richiamano la guerra, lo schermo è quasi sempre nero, intervallato da immagini estemporanee e stranianti (patate cucinate, passi nella neve, lo sguardo di uno scimpanzé). Insomma, anti-cinema puro e duro di un autore che non teme le provocazioni - singolare anche la presentazione in sala fatta dallo stesso Gordon, che ha introdotto il film fingendo (o forse no?), di parlare al cellulare con un misterioso interlocutore - ma che risulta troppo ostico e in fondo autoreferenziale. Un prodotto che può risultare allo stesso tempo affascinante e irritante.

Voto: 2/4

 

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POW WOW di Robinson Devor (2016) - Signs of Life

Nel 1909, l'indiano Paiute Willie Boy fu protagonista di una storica e famigerata caccia all'uomo attraverso il deserto della California. Un episodio raccontato nel 1969 dal film Ucciderò Willie Kid del regista cult e già blacklisted Abraham Polonski e rievocato in questo bizzarro documentario di Robinson Devor, presentato in una delle sezioni collaterali a Locarno. Devor inserisce spezzoni del film di Polonski in un ritratto straniante degli abitanti della Coachella Valley, dove gli spazi desertici incontrano il verde di sterminati campi da golf, sottoproletari nativi americani e nostalgici cowboy convivono con borghesotti dei country club e vari ed eventuali rappresentanti della tamarritudine a stelle e strisce. Oggetto curioso ma non sempre coinvolgente, il film non decolla mai veramente ma funziona soprattutto a livello visivo, grazie a una notevole capacità del regista di costruire inquadrature suggestive e catturare la bellezza mozzafiato del paesaggio locale.

Voto: 2/4

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