Festival di Roma 2013

The Green InfernoThe Green Inferno è una gigantesca sorpresa. Non perché dal sadismo cruento di Eli Roth, alias l'Orso ebreo, non siamo abituati ad aspettarci un'efferatezza altrove difficilmente rintracciabile, ma perché col suo nuovo film il regista di Hostel ha realizzato un omaggio al cannibal movie all'italiana (quello dei Lenzi, dei Margheriti, soprattutto dei Deodato) capace di andare oltre la retorica ombelicale del fanboy arrapato di interiora ed estetica da mondo movie. Il suo è un vero e proprio aggiornamento in piena regola, che di quei film si porta appresso non solo l'apparenza disfatta, dozzinale e anarchica ma anche i detriti ideologici controversi e non meglio chiariti e l'audacia teorica.

Another MeFaye è perseguitata da un atroce presentimento: il sentore spiacevole che una presenza non meglio identificata si stia inserendo di soppiatto nella sua esistenza spacciandosi per lei, come una sorta di alter-ego malefico che sfugge al suo controllo. Quello che a prima vista sembra solo un delirio adolescenziale da teenager si rivelerà invece un sospetto fondato, direttamente connesso a un passato dai segreti familiari oscuri, che le è stato negato e che è pronto a riemergere senza lasciare scampo.

Difficile non alzare bandiera bianca, dinanzi ad un film per molti versi sconcertante come Another Me, che arriva giusto in coda nel concorso dell’ottava edizione del festival internazionale del film di Roma e francamente non si capisce neanche cosa ci faccia, in una selezione ufficiale. Operazione risibile da qualsiasi lato la si voglia osservare, che gioca col tema del doppio e con l’angoscia di una messa in scena perturbante generando però più un effetto di comicità involontaria che altro. Tutto speso tra ridondanti e inguardabili giochi di specchi e patinati pasticciacci di regia, il film della Coixet, da sempre sopravvalutata ma mai abbassatasi a simili nadir, inanella un almanacco di piccole trovate alimentari che dovrebbero risultare a loro modo fascinose ma non fanno altro che far scempio di ogni buon gusto con reiterato sprezzo del ridicolo.

i-corpi-estranei-locandinaAntonio arriva a Milano dall’Umbria, spinto dalla speranza di curare il figlioletto Pietro, affetto da un tumore al cervello. L’adolescente Jaber nel capoluogo milanese invece ci vive, in fuga da un’Africa invischiata in delle rivolte che non lasciano sicurezza, che brulicano di una libertà sognata ma allo stesso tempo spalancano miriadi di dubbi su ciò che ne sarà di un intero continente e fetta di mondo. Anche lui bazzica nello stesso ospedale in cui si trova Antonio, per stare accanto a un amico malato. Una vicinanza simile alla spartizione del territorio tra due animali, la loro, tra diffidenza e sospetti, tra la tensione verso l’utopia di un futuro migliore e la cruda realtà sociale di un’intolleranza che continua a invadere ogni angolo, ogni centimetro di spazio condiviso.

her-la-locandina-del-film-282425Spike Jonze la brillantezza, Spike Jonze l'intelligenza. Nel nuovo film del regista de Il ladro di orchidee, dopo la parentesi solo in apparenza estranea e spiazzante rispetto al suo stile di Nel paese delle creature selvagge, queste due qualità si respirano in quantità industriale.

Il merito è soprattutto di una scrittura di grazia e freschezza sopraffine che dimostra l'eccellente qualità della penna di Jonze, il cui sguardo è qui sgravato da ogni influenza a lui esterna, dall'arzigogolato e tormentato aplomb cervellotico di Charlie Kaufman. Trionfa allora la delicatezza, il brio sarcastico di un'effervescenza romantica che sa divertire con un mix efficace di semplicità e raffinatezza, sposando l'arietta da commedia sofisticata alla '' grevità'' irriverente - giusto per fare un esempio - di un robottino sboccato e parolacciao con cui il protagonista interagisce in sede virtuale.

Dallas1985. L’HIV si sta diffondendo per il territorio americano a una velocità impressionante senza che la comunità scientifica si dimostri in grado di trovare le giuste contromisure. Ron Woodroof, torero texano cocainome, alcolizzato e omofobo, scopre di esserne affetto ed inizia la sua personale battaglia contro il letale virus dell’AIDS, procurandosi fuori dagli Stati Uniti dei farmaci non approvati dalle autorità competenti del suo paese e rivendendoli a coloro che condividono la sua stessa sorte.

Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, tratto da una storia realmente accaduta, è una tipologia di film biografico cui un po’ tutti, anche se non ce ne accorgiamo troppo, siamo decisamente abituati. Di quei prodotti che adempiono con millimetrica aderenza a tutti i requisiti necessari per farsi piombare addosso una pioggia di Oscar: il protagonista realmente esistito, i tic fedelmente riproposti (in questo caso quasi tutti deplorevoli), una regia d’ordinanza ma smaliziata e capace e un attore in grado di elevare a potenza l’equazione infallibile del cosiddetto metodo: ecco che allora, intorno a un Matthew McConaughey gigantesco e quasi irriconoscibile, si articola un film di solido mestiere, che riesce a intrattenere e indignare ma senza mai superare le rigide barriere del biopic classico.

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