southpaw

 

DOVE ERAVAMO RIMASTI di Jonathan Demme (2015)

A sette anni di distanza da Rachel sta per sposarsi, Jonathan Demme torna dietro la macchina da presa per un ritratto rockeggiante gradevole e spensierato all'insegna della malinconia, tra ricerca della propria identità, affermazione delle radici USA e senso di libertà che deve fare i conti con l'inesorabile scorrere del tempo. Una world première, quella di Dove eravamo rimasti, molto attesa sia dalla critica che, soprattutto, dal grande pubblico, capace di rispettare le consegne senza guizzi degni di nota ma anche senza fragorose cadute nella retorica a stelle e strisce.

Il ritorno a casa della cantante rock/country Ricki, artista non più giovanissima che ha coltivato il sogno della musica abbandonando anni addietro il nucleo famigliare, si regge sulla vitale interpretazione di una grande Meryl Streep e su una genuina spontaneità nell'approccio al mondo della musica, percepibile nelle trascinanti esibizioni della band (quei Ricki and the Flash del titolo originale del film). Una pellicola molto ben confezionata che cede sotto i colpi delle convenzioni nella scrittura dei personaggi secondari (ad esempio Pete, il ricchissimo e ingessato ex marito della protagonista, interpetato da Kevin Kline), ma che riesce a fare della riconciliazione finale un liberatorio happy ending che sottolinea la determinazione del popolo americano. Per la terza volta la Streep recita accanto alla sua vera figlia Mamie Gummer (che qui interpreta l'inquieta Julie), dopo Heartburn (1986) e Evening (2007).

Voto: 2/4


SOUTHPAW – L'ULTIMA SFIDA di Antoine Fuqua (2015)

Anomala incursione del cinema tutto muscoli ed eccessi emotivi made in Usa all'interno di una kermesse che fa della marcata ricerca autoriale il suo punto di forza. L'ultimo film dell'energico Fuqua diventa così un approdo mainstream all'interno di una realtà distante anni luce da qualsiasi forma di successo popolare. Quello che poteva essere un blockbuster di buona fattura si rivela però essere un vacillante concentrato di personaggi standardizzati e situazioni ad alto tasso retorico.

L'idea di omaggiare i classici film sportivi tinti di dramma si trasforma in un piattissimo calco di quanto già visto in passato. Le citazioni sfumano nel plagio e il tentativo di rifarsi a un mood anni '80 (nei caratteri spigolosi, nelle emozioni forti, nell'ambientazione "pacchiana") fallisce per mancanza di coraggio nello spingersi verso una deriva "tamarra" (ahimè trattenuta e solo abbozzata) che sarebbe apparsa intonata al tono dell'opera. La parabola bigger than life del pugile Billy Hope, in cerca di redenzione e vendetta dopo la tragica morte violenta della moglie Maureen (Rachel McAdams), rimane un collage di scene senza alcuna forza autonoma. Jake Gyllenhaal offre la solita interpretazione del boxeur tormentato impegnato nello scontro "della vita" sul ring, mentre 50 Cent appare convincente nel ruolo del manager Jordan Mains, pronto ad abbandonare il protagonista alla prima difficoltà. Forest Whitaker, come allenatore che riporta alla gloria Hope, è quanto di più usurato si possa vedere sullo schermo. Accanto alla colonna sonora di James Horner (1953-2015), spicca il sound "arrabbiato" di Eminem, inizialmente pensato come protagonista per quello che doveva essere una sorta di seguito di 8 Mile (2002).

Voto: 1,5/4


COSMOS di Andrzej Żuławski (2015)

Cineasta di culto, Andrzej Żuławski (Possession, La Femme publique, Amour braque – Amore balordo, Sul globo d'argento) torna, a quindici anni da La Fidélité, con un'opera perfettamente in linea con la propria poetica estrema e spiazzante. Ma i fasti del passato appaiono ormai lontani e la pellicola finisce per essere un posticcio concentrato delle ossessioni del regista polacco (caos, disordine fisico e mentale, passioni distruttive) condite da una tendenza al grottesco di rara inadeguatezza, al limite dello scult. La messa in scena televisiva completa un quadro disastroso, dove l'evidente pochezza di idee arranca nel tentativo di ricalcare un'idea di cinema schizofrenico e delirante che qui appare soltanto tristemente anacronistico.

Scritto dallo stesso Żuławski sulla base dell'omonimo romanzo di Witold Gombrowicz, un metafisico thriller noir (secondo la presuntuosa definizione dell'autore stesso) in cui la narrazione è un pretesto per indagare il confine tra realtà e rappresentazione, perfezione e imperfezione, presagi di morte e natura inquietante. Ma il giochino cinefilo ha il fiato cortissimo e i rimandi alle altre opere del regista sono solo patetici. Una supercazzola da cui si può anche essere superficialmente suggestionati, scambiandola per un prodotto d'autore.

Voto: 1/4

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