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- Scritto da Camilla Maccaferri
- Categoria: Editoriali
- Pubblicato: 01 Giugno 2014
I social network, questi sconosciuti. La loro venuta nel mondo cinefilo ha contribuito a oscurare in poco tempo il fermento sano e stimolante dei blog, dove lo scambio e la polemica si alimentavano incessantemente, dove tra articoli e commenti si formavano le nuove leve della cinecritica. Con l'impero di Facebook i blogger, pigri come tutti noi umani sappiamo essere non appena ne abbiamo l'occasione, hanno abbandonato il terreno fertile dei propri piccoli feudi per trasferire il dialogo, e la battaglia, sul social più famoso del mondo.
Cinefili di ogni estrazione e provenienza si sfidano e discutono ogni giorno dal basso dei loro profili, multimedializzando le loro conversazioni con immagini, trailer, articoli. Un universo stimolante e sulla carta affascinante. Sulla carta, dico, perché invece sui cristalli liquidi dello schermo la faccenda è molto più piatta e molto meno articolata.
Due le motivazioni principali: la democrazia 2.0 tanto amata dai seguaci del M5S, che permette a chiunque di intervenire e dire la propria (anche e soprattutto non richiesta) e la frenesia facebookiana (grazie alla quale noi nativi digitali sfoghiamo le nostre frustrazioni di eterni precari) che ci spinge a rispondere immediatamente, con il basso ventre, il polpastrello fremente dal desiderio irrefrenabile di premere il tasto "invio". Un piccolo gesto di affermazione identitaria, un timido rigurgito di io, il massimo concesso dalla contemporaneità globalizzata che si dipinge egualitaria e anticlassista. Dunque, un po’ per l’insipienza travestita da arroganza dei più, un po’ per il sangue che gonfia le tempie di tutti, alimentando odi, faide, rancori, idolatrie e sentimenti bassoventrali vari, la discussione cinéphile finisce spessissimo per appiattirsi nel bieco e triste tifo da stadio. Il regista tal dei tali è dio. Tal dei talaltri è un idiota. Questo film è un capolavoro, no, è un cesso. Senza motivazioni, senza spiegazioni minimamente approfondite. Senza critica. Nell'appiattimento dell'oligarchia dei like (chi si illude che i social siano uno strumento democratico, in realtà non ne ha colto l'essenza profondamente totalitaria), ogni conversazione si annulla a livelli di superficialità imbarazzante. Gli spiegoni con cui ogni tanto qualcuno tenta di argomentare prendono spesso forma di autocompiaciuti streams of consciousness volti più che altro all'autoconvincimento degli autori stessi o al piacere onanistico di rileggere la propria graffiante prosa e vantarsene chiusi nel silenzio della propria cameretta. Il dialogo, la crescita, lo scambio si riducono cosi a sterili discussioni da Bar Sport sulla legittimità o meno del rigore assegnato. Cosa che succede puntualmente ogni volta che un regista “de culto” porta al cinema la sua ultima opera: dal controverso Nymphomaniac al recentissimo Maps to the Stars, il popolo della rete deve dire la propria, immancabilmente, come è uso fare il popolo da che mondo è mondo. Con il populismo. Chi grida più forte si distingue anche tra i Genny le Carogne della cinefilia. Ho ragione io, tu hai torto. Il mio regista preferito è un fenomeno, il tuo è una capra. Questo film è enorme, anzi, è orrendo. Chi ama X non capisce niente, se non ti piace Y sei un incompetente. Forza Milan, viva l'Inter. Addio critico, benvenuto ultrà.
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