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- Scritto da Andrea Chimento
- Categoria: Cinesaggistica
- Pubblicato: 29 Ottobre 2012
Riflessioni sul concetto di adattamento hanno coinvolto gli studi sul cinema fin quasi dalle sue origini. Se prendiamo l’importante libro di André Gaudreault sull’argomento[1], ci accorgiamo che i testi che hanno trattato il tema dell’adattamento sono più di centocinquanta, dimostrando così come la teoria del cinema abbia, fra i suoi percorsi di studi privilegiati proprio l’adattamento e, più in generale, il rapporto fra testi.
Negli anni ’50 si inizierà a trattare con forza e spessore il tema dell’adattamento grazie agli scritti di André Bazin e dei giovani protagonisti della nouvelle vague[2]. Il loro pensiero si incentrava quasi esclusivamente sul rapporto che si andava a sviluppare fra il libro e il film, fra la letteratura e il cinema. Un esempio celebre, in questo senso, è lo studio compiuto da Bazin su Il diario di un curato di campagna, da Bernanos a Bresson[3].
Questa tendenza di considerare l’adattamento come passaggio da romanzo a film è preponderante ancora oggi.
Uno dei testi più importanti sull’argomento degli ultimi decenni è, ad esempio, Film Adaptation curato da James Naremore[4] che, pur considerando l’adattamento in senso ampio e con varie forme possibili di intertestualità, si concentra, in particolare, sul rapporto romanzo-film.
Ancora oggi, quindi, nonostante viviamo in una società sempre più intermediale, gli studi sul cinema e il suo rapporto con altri testi si concentrano sulla relazione fra il film e il romanzo di appartenenza.
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Un ruolo fondamentale nelle teorie sull’adattamento dovrebbe però averlo il fumetto, in relazione ai film usciti negli ultimi anni.
Per rendersi conto dell’importanza di un fenomeno come quello della trasposizione da fumetto a cinema basti pensare al caso unico del Giappone e della trasposizione manga - anime, cioè i fumetti giapponesi portati sullo schermo in forma di cinema d’animazione, sempre per mani nipponiche. Questi casi, infatti, sono innumerevoli (buona parte della produzione animata giapponese è tratta dai relativi manga), e ben diversificati. Ad esempio proprio la prima serie animata televisiva giapponese Astroboy, andata in onda dal 1963, era ispirata all’omonimo manga nato nel 1952; il manga è stato disegnato ed ideato da Osamu Tezuka, che curò anche la regia dell’anime. Un altro esempio simile è il Nausicaä nella valle del vento di Hayao Miyazaki, di cui il manga e il film d’animazione sono realizzati dallo stesso autore. Questi sono casi piuttosto rari, in quanto la tendenza è quella di realizzare trasposizioni di manga in anime (o in film dal vero, anche se in numero minore) liberamente e largamente rivisitati e soprattutto da mani differenti.
In questo senso la produzione statunitense di film o serie tratte da fumetti è distribuita con una totale assenza di autori sia di fumetti che di film e con sporadici casi di fedeltà totale all’opera originale. Nel corso della storia del cinema, infatti, diverse sono state le trasposizioni di fumetti, specie dei superheroes comics, ad essere semplici adattamenti, seriali (anche animati) o lungometraggi, da cui viene mantenuto fedele il soggetto generale e i personaggi. Esempi come Hulk, Spiderman, Superman, Batman sono tra i più celebri e significativi, nel loro presentarsi nel corso degli anni nelle svariate forme di serie televisive, lungometraggi o serie animate.
Nel caso delle graphic novels, o delle miniserie conclusive, il discorso comincia a cambiare. Tali organizzazioni narrative del fumetto, infatti, si prestano esattamente come un romanzo ad essere scritte sullo schermo, con un inizio, uno svolgimento ed una fine da cui attingere in maniera più o meno consistente ed in maniera più o meno fedele.
Ciò che risulta invece sorprendente è quando la riscrittura cinematografica del fumetto non segue soltanto le dinamiche narrative, ma anche l’organizzazione visiva. Se per il già citato caso di Miyazaki ciò sembra plausibile (è lo stesso autore, che attua una riproduzione visiva della propria idea per forza in maniera simile), differente è il discorso che ha portato Robert Rodriguez (anche se coadiuvato dallo stesso Miller) a realizzare Sin City, o Zack Snyder a realizzare Watchmen. In questi due casi, infatti, l’aderenza delle due immagini (vignetta ed inquadratura) appare una sorta di fotocopia, ma per un processo che, forse, varia in maniera sottile dal desiderio filologico del fanatico integralista dell’opera originale al semplice processo, anche inconscio, di sfruttare le comodità di un suggerimento (il taglio dell’inquadratura) che appare già corretto.
Tale atteggiamento è da considerarsi in parte un frutto dell’evoluzione di due forme che partendo da una differenza di mezzo (la carta ed il disegno l’uno, la pellicola e la fotografia l’altro) hanno raggiunto un’aderenza di struttura.
Parte di questo risultato è da attribuire anche all’età dei due mezzi, sostanzialmente coscritti. Se, infatti, la nascita del cinema è stata istituzionalmente fissata (e approfondendo si può notare come la realtà sia stata più complessa e diversificata) il 28 dicembre 1895, quella del fumetto è fissata il 16 febbraio 1896, con l’inizio della serializzazione di Yellow Kid di Richard Felton Outcault sul New York World. Chiaramente anche per il fumetto esistono illustri precedenti prototipi, esattamente come per il cinema sono stati gli esperimenti fotografici, le ombre cinesi e via discorrendo.
Per molti appassionati, teorici e fumettisti indipendenti, il fumetto, a causa dell’enorme influenza esercitata dalla Golden Age statunitense del comics, cioè delle serie DC e Marvel, dal 1930 in poi si è arenato verso l’utilizzo di un linguaggio troppo simile a quello del cinema. Effettivamente, Golden Age e cinema hollywoodiano classico, entrambi fenomeni degli anni ’30 e ’40, hanno segnato in buona parte le regole industriali e linguistiche di entrambi i mezzi, grazie all’esportazione e al successo quasi a livello globale.
Il segno più evidente di tale aspetto è verificabile osservando la struttura in vignette: sempre più regolari e con campi e piani di misure simili a quelle per il cinema.
Tale linguaggio era da relegarsi soprattutto al fumetto mainstream; Infatti, esattamente come per il cinema, anche il fumetto ha visto il susseguirsi di autori indipendenti che hanno cercato la sperimentazione del mezzo.
Come già accennato, un esempio diventato molto noto e celebre negli ultimi anni è quello di Frank Miller, in particolare per una delle sue opere più famose: Sin City.
Miller scrive e disegna il fumetto nel 1991[5], che riscuote nel corso degli anni un successo che lo porta a diventare un vero e proprio oggetto di culto. Nel 2005 uscirà il film tratto da questo fumetto, Sin City (id., 2005), diretto da Robert Rodriguez insieme proprio allo stesso autore originario.
Guardando questo film si ha subito l’impressione di un “fumetto in movimento”: le immagini, i colori, il linguaggio dei personaggi, ricrea perfettamente l’universo tipico della graphic novel. Il fumetto era già un lavoro estremamente “cinematografico” per lo stile usato, e il passaggio sul grande schermo è stato diretto e forse semplice.
Un esempio ancor più significativo in questo senso è Watchmen (id., 2009) di Zack Snyder.
Questo film è tratto, come tutti sanno, da quella che è forse la graphic novel più celebre della storia: Watchmen di Alan Moore[6].
Per dare qualche indicazione aggiuntiva su quest’opera, Watchmen è una miniserie a fumetti di 12 albi, scritta da Alan Moore e disegnata da Dave Gibbons, pubblicata dalla DC Comics a partire dal 1986. Ad oggi rimane l’unica graphic novel ad aver vinto un Premio Hugo[7], ed è stata inoltre inserita nella lista di Time Magazine dei “100 migliori romanzi in lingua inglese dal 1923 a oggi”.
Stiamo parlando quindi di uno dei fumetti certamente più importanti della storia e questo certamente ha creato non poche responsabilità a Snyder e a chi ha voluto “adattarlo” per il grande schermo.
Il fumetto di Moore (che, come noto, si è rifiutato di collaborare al film e di apparire sui titoli di testa), come Sin City, aveva all’interno delle convenzioni stilistiche e linguistiche tipiche dell’universo cinematografico: come dicevamo in precedenza, in particolare per la presenza di vignette che sembrano vere e proprie inquadrature della macchina da presa.
Il fumetto di Alan Moore, infatti, è strutturato in vignette regolari di forma rettangolare verticale, sempre della medesima grandezza e del medesimo numero in ogni pagina. Le vignette più grandi sono sempre ricavate dall’unione di più vignette, in modo da non modificare la dimensione e la posizione delle rimanenti vignette nella pagina. Se per la vignetta regolare la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un inquadratura su uno schermo, per quelle più grandi sembra semplicemente di essere di fronte ad una carrellata, orizzontale o verticale che sia.
Per fare un esempio più concreto, il fumetto si apre con una vignetta in cui vediamo il celebre smile insanguinato a terra. Nelle vignette successive i disegni di Gibbons mostrano quello smile sempre più lontano, esattamente come se ci fosse una macchina da presa che partendo da un dettaglio piano piano si alza verso il cielo fino a non riuscire più a inquadrarlo.
Le immagini dall’alto sono una costante nel fumetto e sembrano assolutamente perfette per ricreare le inquadrature plongée cinematografiche.
A questo punto la domanda da farsi è: all’interno di un ragionamento sull’adattamento, come si può definire il Watchmen di Snyder? In un rapporto così diretto, esplicito, fra testi cos’è questo film a livello ontologico?
La risposta potrebbe essere semplicemente che la funzione del lavoro di Snyder e company sia stata soltanto illustrativa: riprendere meramente le immagini di Gibbons e portarle sullo schermo.
In realtà però la definizione non è così semplice.
Un interessante spunto di riflessione sarebbe pensare che il passaggio dal lavoro di Moore a quello di Snyder non sia un passaggio fra forme testuali diverse, ma che possa essere una “fase” della stessa.
In questo senso passeremmo da un adattamento che si pensava inerente all’ordine dell’intertestualità, a uno che invece va a far parte della intratestualità: se fosse così il lavoro di Snyder sarebbe inseribile nello stesso contesto culturale-artistico-testuale di quello di Moore e non all’interno di forme artistiche completamente diverse.
Se prendiamo come buona e possibile questa suggestione si aprono due possibilità, molto diverse fra loro, su come considerare e definire il film in rapporto alla graphic novel.
La prima è forse più semplice ed immediata: il fumetto di Moore potrebbe essere visto non come un testo a sè dal quale prende spunto il film di Snyder, ma come una parte del processo che ha condotto allo sviluppo dell’opera cinematografica. Il fumetto Watchmen potrebbe essere letto come la sceneggiatura del film o, ancora meglio, come il suo storyboard.
Gli storyboard sono, come è noto, dei disegni che illustrano inquadratura per inquadratura ciò che verrà girato sul set. Solitamente sotto a questi disegni vi sono delle indicazioni per i movimenti della macchina da presa: panoramica orizzontale, zoom in avanti, solo per fare degli esempi.
I disegni di Dave Gibbons possono fungere perfettamente da storyboard: come abbiamo detto, le vignette di Watchmen possono tranquillamente essere delle inquadrature da grande schermo; ma, ancor più importante, la consapevolezza cinematografica dell’opera di Moore sembra inscrivere già al suo interno i movimenti che dovrebbe fare la macchina da presa (il caso dei plongée di cui dicevamo sopra è un chiaro esempio).
Se fosse buona questa ipotesi non ci sarebbe più allora un passaggio da una forma testuale all’altra, ma invece una concatenazione di fasi diverse interne alla stessa testualità.
La seconda ipotesi è invece una suggestione (e forse una provocazione) più complessa da accettare: è possibile che il film di Snyder sia un remake del fumetto di Moore?
A questa domanda la risposta pare essere negativa, poichè il remake è considerato un rifacimento di un’opera appartenente allo stesso universo linguistico.
Augusto Sainati scrive senza ripensamenti che: «il remake è un fenomeno [...] intratestuale, altrimenti c’è trasposizione o adattamento»[8].
In realtà non tutti la pensano così nettamente, soprattutto in un’epoca come questa fatta di continui scambi interlinguistici e intermediali.
In questo senso mi appare necessario citare un ottimo saggio di Gianni Canova, inserito nello stesso gruppo di studi di quello di Sainati: «Parliamo di remake da film a film ma siamo molto più diffidenti ad applicare questa categoria a fronte di operazioni di rimediazione che fanno transitare un racconto, un mondo, una visione, da un videogame a un film, da un libro a un film, da uno spettacolo teatrale a un film. In questi ultimi casi allora non parliamo di remake ma di attamento. È come se il cinema e noi studiosi faticassimo ad aprirci a una cultura veramente intermediale oltre che intertestuale, cioè come se faticassimo ad operare con categorie aperte a ipotesi di lavoro basate su un vero meticciato ermeneutico, linguistico e testuale»[9].
Canova parla di passaggio da videogame, libro, spettacolo teatrale a film come possibile idea di remake; ma a questo elenco si può (e forse diventerebbe il caso più emblematico) aggiungere il fumetto.
Se si prende per buona questa suggestione di un remake che passi da un’arte all’altra, il caso di Watchmen diventa assolutamente applicabile a questa categoria.
Come detto, il lavoro di Snyder è fedelissimo a quello di Moore soprattutto perché già nella graphic novel c’era una costante consapevolezza cinematografica.
Il film di Snyder può essere allora visto proprio come un remake, fedele allo spirito e alla lettera dell’originale, con qualche cambiamento in relazione a “doveri commerciali” (come il finale del film meno crudo e apocalittico rispetto a quello del fumetto) o in relazione al passaggio temporale di più di vent’anni da un’opera all’altra. Gli stessi motivi che spesso portano a produrre remake in ambito cinematografico.
In questo senso, e per concludere, in un’epoca sempre più caratterizzata da passaggi intertestuali, interlinguistici e dalla presenza di un vero e proprio “intermedium espanso”[10], possiamo iniziare a considerare il concetto di remake anche all’interno di un passaggio da una forma testuale all’altra, da un’arte all’altra.
Uno degli esempi più significativi di questa possibile nuova consapevolezza intermediale potrebbe essere proprio Watchmen.
[2] Si veda a tal proposito Giovanna Grignaffini (a cura di), Il cinema secondo la nouvelle vague, Temi, Bologna, 2006.
[3] André Bazin, “Journal d’un cure de campagne” et la stylistique de Robert Bresson in «Cahiers du Cinéma», nr.3, 1951. Trad.it. in Edoardo Bruno (a cura di), Teorie del realismo, Bulzoni, Roma, 1977.
[7] Il Premio Hugo è chiamato anche Science Fiction Achievement Award ed è un premio dato ogni anno durante il World Science Fiction Convention per premiare il migliore lavoro di fantascienza o fantasy della stagione.
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