Nato a fine '800 e morto nei primi anni '70, Ip Man è stato uno dei più importanti esponenti del Wing Chun Kung Fu nonché maestro del grande Bruce Lee. Il film di Wilson Yip si propone essenzialmente come un film di arti marziali ma anche come un biopic del Gran Maestro focalizzato nel periodo che va dagli anni trenta alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In quegli anni il Fushan era, non solo un florido centro economicamente sviluppato, ma anche il luogo d' incontro e crescita per le varie discipline di arti marziali. Tutto cambia dopo l'invasione giapponese: il Paese cade in una profonda crisi economica che non può che coinvolgere anche il Fushan e i suoi abitanti. Perfino il Maestro Ip è costretto ad abbandonare la sua casa e a trovare un lavoro per sfamare la sua famiglia. Il momento del riscatto arriva quando un generale giapponese decide di mettere alla prova le arti marziali giapponesi contro quelle cinesi, sfida alla quale il Maestro Ip è costretto da tragici eventi ad accettare.

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Ip Man rappresenta una tappa fondamentale nella lunga carriera di Wilson Yip e nello specifico quella dove un ottimo regista/sceneggiatore si trova a confrontarsi con un progetto ad alto budget scritto da altri. Fortunatamente il regista hongkonghese fa il suo ingresso nel cinema, a volerne dare la definizione riduttiva di “commerciale”, dall’ ingresso principale con un grandissimo film d’ arti marziali sui cui limiti “storici” si potrebbe anche soprassedere se non fossero delle stonature fin troppo evidenti: dal punto di vista della ricostruzione scenografica non c’è niente da eccepire visto che ci troviamo di fronte ad un lavoro importante che rispecchia la mole produttiva investita nel progetto. I dubbi sorgono nella rappresentazione fin troppo di parte ed elementare dei cinesi e giapponesi ridotti ad essere, rispettivamente, i buoni ed i cattivi. Particolare che potrebbe essere anche in qualche modo giustificabile se non fosse che la sceneggiatura procede in maniera reiterata a rincarare la dose quando, oltre alla supremazia militare, l’ esercito nipponico punta ad un annichilimento culturale partendo proprio dalle arti marziali: i giapponesi, privi di qualsiasi senso dell’ onore, le usano per schiacciare gli avversari su di un terreno in cui dovrebbero essere superiori, mentre i cinesi, pur essendo addestrati, non le usano se non in casi di estrema necessità dimostrando di essere, moralmente, una spanna sopra gli invasori.

Facilonerie di scrittura a parte, sulle quali il regista non ha avuto evidentemente molta voce in capitolo, Wilson Yip sfrutta senza indugi ogni singola risorsa a disposizione per non fallire nell’ aspetto di punta del film, la spettacolarità: appoggiandosi al talento ed alle doti atletiche di Donnie Yen, con il quale ha lavorato più volte nel corso della sua carriera, Yip rende le sequenze di combattimento il fiore all’ occhiello del film, grazie anche ad una collaborazione totalmente sinergica tra, il suo talento dietro la macchina da presa e le coreografie del veterano Sammo Hung, il cui solo nome è sinonimo di qualità. Tutti elementi che, visti in un’ ottica complessiva, giustificano l’ ottima risposta di pubblico anche al di fuori dei confini nazionali ma anche un secondo capitolo messo in cantiere in maniera quasi repentina.



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