TIR di Alberto Fasulo (2013)
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- Scritto da Marco Valerio
- Pubblicato: 25 Febbraio 2014
- Creato: 25 Febbraio 2014
Trionfatore a sorpresa all’ottava edizione del Festival internazionale del Film di Roma, Tir di Alberto Fasulo arriva nelle sale.
Un non documentario (come è stato erroneamente spacciato, anche come sorta di “risposta” romana al Sacro Gra Leone d’Oro a Venezia) che racconta la storia di Branko, un ex professore di Rijeka, che da qualche mese è diventato camionista per un’azienda italiana. Una scelta più che comprensibile, in quanto il lavoro da autista gli frutta il triplo rispetto al suo vecchio stipendio da insegnante. La monotonia delle sue giornate e il suo vagare in solitaria per le strade del nord Italia e del nord Europa vengono interrotte esclusivamente da poche telefonate (alla centrale operativa, al figlio, alla moglie) e ancor meno soste rifocillanti, il tutto corredato da problemi di lavoro, discussioni sindacali e rimpianti per sogni e ambizioni che sembrano essere definitivamente tramontati.
“Il lavoro non nobilita più l’uomo, ma lo umilia”: questo è l’assunto di base intorno a cui ruota la costruzione filmica di Alberto Fasulo. La buona volontà con cui il protagonista Branko si impegna per adempiere al proprio dovere non è sufficiente per compensare lo stanco ripetersi di ritualità lavorative che portano ad una progressiva spersonalizzazione, ad una consapevole e inevitabile alienazione, ad uno smarrimento senza via d’uscita.
LA BELLA E LA BESTIA di Christophe Gans (2014)
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- Scritto da Camilla Maccaferri
- Pubblicato: 25 Febbraio 2014
- Creato: 25 Febbraio 2014
Presentata fuori concorso a Berlino, arriva nelle sale la versione di Christophe Gans de La bella e la bestia con protagonisti Vincent Cassel e Léa Seydoux. Ci si chiede subito il perché di questa strana scelta, dato che la favola di Beaumont aveva già goduto di due splendide versioni cinematografiche, quella di Cocteau e quella animata della Disney, che non lasciavano nulla da aggiungere alla storia.
OLTRE IL GUADO di Lorenzo Bianchini (2013)
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- Scritto da Andrea Bruni
- Pubblicato: 24 Febbraio 2014
- Creato: 24 Febbraio 2014
Dobbiamo essere grati al regista friulano Lorenzo Bianchini. A lui va dovuto il massimo rispetto, e tutta la più sincera ammirazione, sia per la coerenza stilistica, che per il rigore formale che egli, pur fra mille difficoltà produttive, mostra da dieci anni a questa parte. Ma dobbiamo essergli grati anche perché Bianchini non si è mai considerato il primo della classe alla scuola serale diretta da Argento (istituto, per altro, chiuso da almeno vent’anni, forse di più), non ha mai pensato di cedere ad efferati arsenali sadici pour épater le bourgeois, né, tantomeno, si è mai sognato di salire sul carretto insanguinato del “Torture Porn”. No, Bianchini vuole semplicemente farci paura, cosa che gli riesce dannatamente bene… Bianchini appartiene ad una razza sempre più rara: egli è un Puro Regista dell’Orrore.
Il cinema di Douglas Sirk e l’America allo specchio
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- Scritto da Stefano Lorusso
- Pubblicato: 21 Febbraio 2014
- Creato: 21 Febbraio 2014
Nella percezione diffusa il nome di Douglas Sirk si associa al melodramma classico. A dispetto di una produzione vastissima, distribuita in quasi mezzo secolo di attività, è indubbio che la sua fama sia legata alla fortunata stagione del cosiddetto “Periodo Universal”, inaugurato nel 1950 e concluso nel 1959 con la realizzazione di un film-summa come Lo specchio della vita. Nell’arco di una decade tra le più fertili della storia del cinema, Sirk fu in grado di inanellare una incredibile sequenza di grandissimi film destinati a fondare il centro e il nucleo di un personale e coerente discorso cinematografico. Come spesso è accaduto per grandi autori che si sono misurati con i codici dei generi, a Sirk la rigida cornice del melodramma ha fornito l’occasione perfetta per affondare il suo sguardo di esule tedesco, fuggito all’orrore nazista per proteggere sua moglie Hilde, dentro le contraddizioni profonde insite nella società e nel costume americano. In tempi più recenti anche un altro grande tedesco esule e “sradicato” come Werner Herzog ha compiuto un itinerario simile, scandagliando con i suoi documentari (Into the Abyss, Death Row) i recessi più cupi dell’americanità.
Se Herzog sta concentrando la sua attenzione su aspetti come il rispetto dei diritti umani e la violenza giovanile, Sirk nel lontano 1950, sotto l’apparenza rassicurante e mainstream di un cinema di sentimenti, lacrime e passioni brucianti, ha innestato riflessioni di portata rivoluzionaria su integrazione, pregiudizio e uguaglianza.
In Douglas Sirk un esponente centrale del Nuovo Cinema Tedesco come Rainer Werner Fassbinder ha identificato la figura paterna capace di fare da ponte con un passato (di celluloide e non solo) sottoposto a violenti processi di rimozione ed emendazione collettiva. In una celebre dichiarazione d’amore nei confronti del cineasta di Amburgo, Fassbinder affermava: “il cinema di Douglas Sirk libera la mente”. Fermarsi alla superficie di questo straordinario testo audiovisivo significherebbe rinunciare a coglierne l’essenza più intima, osservando la splendida immagine incorniciata da uno specchio senza cercare di mettere a fuoco la forma e i contorni dell’oggetto riflesso.
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12 anni schiavo: dalle pagine di Solomon Northup al film di Steve McQueen
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- Scritto da Lorenzo Bianchi
- Pubblicato: 21 Febbraio 2014
- Creato: 21 Febbraio 2014
«Poiché la mia è la storia di un uomo nato in libertà, che poté godere dei benefici di tale condizione per trent’anni in uno Stato libero e che fu poi rapito e venduto come schiavo e tale rimase fino a al felice salvataggio avvenuto nel mese di gennaio del 1853, dopo 12 anni di cattività, mi è stato suggerito che queste mie vicende potrebbero rivelarsi molto interessanti per il grande pubblico». (Solomon Northup, 12 anni schiavo, 1853)
Queste le parole con cui Solomon Northup apre il suo romanzo autobiografico, da cui Steve McQueen ha tratto 12 anni schiavo, il gigantesco film candidato a 9 premi oscar e che in Italia arriva solamente il 20 gennaio, tra le polemiche per le locandine accusate di razzismo, con Brad Pitt o Michael Fassbender in primissimo piano e Chiwetel Eijofor relegato in un angolo. E quando Solomon Northup parla di «vicende molto interessanti per il grande pubblico», non poteva neanche immaginare quanto sarebbe stata importante la sua opera per un tema delicato come il razzismo e la schiavitù, trattato già diverse volte sul grande schermo ma mai con questa incisività. Si pensi a grandi film come Il colore viola (11 nominations agli oscar, ma la maggior parte andati a La mia Africa), Amistad (4 nominations agli oscar stravinti da Titanic), di Steven Spielberg, piuttosto che all’ultimo irriverente Django Unchained di Quentin Tarantino, che tanto ha fatto infuriare Spike Lee: si tratta senz’altro di pellicole notevoli, ma che non hanno saputo raggiungere l’enormità, l’intensità e la rude poesia regalate da Steve McQueen, definitivamente consacrato dopo Hunger e Shame.
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